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Folla di amici e religiosi per il funerale di don Soligo, decano dei sacerdoti trevigiani

Il Vescovo mons. Michele Tomasi: «Quanto amore egli ha donato, con tutto se stesso, e a tutti, senza distinzione, con preferenza ai più poveri nel corpo e nello spirito»

Nel luglio 1997 don Ernesto Soligo, durante gli esercizi spirituali nella Casa del Sacro Cuore a Possagno, da buon cristiano ha meditato sulla morte, ed ha steso molte pagine di riflessioni sulla sua vita, sul suo incontro con il Signore, sulle persone, moltissime, con cui ha intessuto l’esistenza sacerdotale: “Fare la volontà di Dio è sempre la soluzione migliore, perché è abbandono totale nel suo amore. Lui solo sa tutto di noi, il ruolo, lo scopo della nostra esistenza. Nelle tue mani, Signore, metto il mio spirito!”. Ha pensato anche ai suoi funerali, che desiderava festosi, pasquali, ed ha suggerito due testi liturgici che sono stati poi letti durante le sue esequie di sabato mattina nella chiesa di San Nicolò a Treviso. 

San Paolo ai Corinti: “Mentre il nostro corpo esteriore si sta disfacendo – sette lunghi anni di tribolazione – quello interiore si rinnova di giorno in giorno, e ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi fissiamo lo sguardo sulle cose invisibili che sono eterne”. "Noi siamo testimoni che questo è avvenuto davvero, specialmente durante il suo soggiorno nella Casa del Clero, circondato dall’affetto dei confratelli preti e dalle cure amorose di tante persone: spogliato nella sua fragilità umana, ma sopravvestito della vita dello Spirito, si è rimesso inerme ed amorevole nelle braccia delle persone buone, come il Signore deposto dalla croce in grembo a sua Madre. Noi abbiamo contemplato in lui l’immagine sacra della Pietà" racconta il vescovo mons. Michele Tomasi.

Il vangelo di Giovanni che ha scelto dice lo scopo costante della sua missione presbiterale: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio”. Questo amore don Ernesto lo ha sperimentato. E quanto amore egli ha donato, con tutto se stesso, e a tutti, senza distinzione, con preferenza ai più poveri nel corpo e nello spirito. “Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato. E il giudizio è questo: la luce è venuta - gli uomini hanno preferito le tenebre perché le loro opere erano malvagie. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appare che le sue opere sono fatte in Dio”.

Noi conosciamo don Ernesto come il prete della carità smisurata, mangiato dalla carità; tuttavia egli è stato principalmente grande illuminato educatore, specialmente dei giovani: direttore spirituale in Seminario, nel Collegio Pio X, nel Centro Studentesco in S. Nicolò, insegnante di religione nelle scuole pubbliche. Accoglieva i giovani nella sua stanza, li cercava nelle parrocchie, nei bar, nei ritrovi, per le strade: li ascoltava con attenzione e rispetto, li aiutava con pazienza a discernere il bene dal male, a liberarsi dalle opere sbagliare, a scegliere la verità, che è il bene compiuto in Dio. Le periferie esistenziali erano le sue dimore, ricco solo di solidarietà, illuminato dall’azione preveniente di Dio. Li raggiungeva con messaggi scritti nelle festività, li riforniva di opuscoli che scriveva per loro, perché nessuno doveva essere privato del riscatto umano, ognuno poteva sviluppare la propria dignità, partendo dalla conoscenza della verità, chiamando per nome le menzogne. I suoi figli, migliaia davvero, si sono realizzati nella famiglia, nella vita professionale, sociale e politica, nella partecipazione pastorale, nella vita consacrata. E quando le prove e le fragilità, li spingevano ai margini, egli c’era accanto a loro, disarmante nella sua tenacia, sconcertante nella sua amabilità.

Nel percorrere le tappe della sua vita, sempre con cuore riconoscente verso i genitori, i famigliari, gli educatori del Seminario, i tanti sacerdoti con cui ha condiviso il ministero, una tappa decisiva riconosce nella scelta dei Sacerdoti Oblati Diocesani compiuta nel 1959. Scrive: “E’ la grazia più forte che ho ricevuto: una comunità di fratelli, motivata dall’oblazione a Dio, al Vescovo, al presbiterio, alla Chiesa: fratelli uniti nella reciproca stima e cordialità affettuosa, nell’aiuto materiale e morale, nella preghiera comune, nella celebrazione quotidiana della Messa, momento forte e luminoso per ogni giornata”. E’ vero che negli ultimi decenni del secolo scorso, la condivisione assidua con le difficoltà giovanili lo ha portato a dedicarsi molto alle varie forme di emarginazione, alle condizioni di povertà, specialmente con l’inizio dei flussi migratori dall’estero. Non dimentichiamo, tuttavia, che fin dal dopoguerra era stato accanto alla sorella suor Quintilla nell’opera caritatevole Madonnina del Grappa di don Facibeni sostenuto dall’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, specialmente quando ella ha dato inizio alla Congregazione delle Sorelle Apostole della Consolata: una costante collaborazione spirituale e materiale, squisita, alla quale fu coinvolta anche mamma Clotilde.

Nel frattempo don Ernesto, in diocesi, dirigeva l’opera degli esercizi spirituali (Fies), era assistente del Movimento Ecclesiale Ciechi, dell’Istituto Psichiatrico S. Artemio; nel 1972 fondava il movimento spirituale Agape; partecipò attivamente alla formazione del Gris; verso i giovani carcerati era la sua predilezione, che credeva fortemente capaci di rigenerarsi socialmente e spiritualmente mediante la scuola, il lavoro, la fede. E non temeva di farsi mendicante, chiedendo la carità a chi poteva in favore di chi non aveva. Sappiamo che divenne coscientemente prete scomodo, perché i bisogni erano maggiori, ed erano veri, spesso drammatici. Fu anche imbrogliato e malmenato, ma perdonava sorridendo.

Sul tavolo del suo studiolo, dove riceveva i giovani dalla mattina alla sera, teneva un cartello con la scritta cubitale “SITIO”, rivolta a se stesso: era l’oblazione d’amore del Crocifisso che voleva essere la sua costante ispirazione e imitazione. Ogni giovane, per quanto diseredato, non si rivolgeva a lui ma al Signore Gesù: in lui doveva trovare il medesimo amore. Perché ognuno potesse venire alla luce e fare verità sui suoi comportamenti. Un giorno confidò che da giovane seminarista una voce interiore gli aveva detto: sarai sacerdote, conoscerai dei Santi, soffrirai molto. Il chirurgo che oltre vent’anni fa lo operò a un tumore in gola, diagnosticava la causa nel fumo delle sigarette altrui che per anni aveva respirato.

"Ma torniamo per un istante ancora alla lettera di Paolo ai Corinzi: “Noi non fissiamo lo sguardo alle cose visibili, ma a quelle invisibili che sono eterne” (4,18). Scrive don Ernesto nel testo del 1997: “Confratelli ed amici carissimi, oggi a voi qui presenti (al funerale) posso dire con autorità che è vero quello che insegniamo e crediamo: il Paradiso c’è, dove il Padre, il Figlio Gesù e lo Spirito ci aspettano; ed è vero che anticipiamo il nostro arrivo vivendo nella grazia di Dio. Il Paradiso è la nostra casa. Il segreto per entrarvi? Facciamo tutto per amore, ricordandoci che non vi entriamo da soli. Da quella luce io continuerò a vedervi, potrò seguirvi più da vicino, più personalmente. Là, nella casa dell’amore, Dio vi aspetta tutti. Anch’io vi aspetterò. E quado arriverete, si farà festa. Saremo in molti a fare festa. Perché lassù è sempre festa” ha infine concluso il vescovo.

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