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Ricercatore trevigiano scopre la sorgente dei grandi terremoti sull'Himalaya

Pubblicato su "Nature Communications" lo studio del trevigiano Luca Dal Zilio che rivela come i piccoli e medi sismi ricarichino le faglie arrivando a generare mega-terremoti

E' stato pubblicato sulla prestigiosa rivista "Nature Communications" un nuovo studio che rivela come i piccoli e medi terremoti ricaricano le faglie fino a generate un mega-terremoto di magnitudo superiore a 8.5.

La ricerca, pubblicata dal trevigiano Luca Dal Zilio è stata applicata all’Himalaya e ha implicazioni sconcertanti per il rischio sismico della pianura indo-gangetica della penisola indiana, attualmente popolata da oltre 400 milioni di persone. Generalmente, quando si verifica un terremoto molto violento, prima che una faglia torni a essere pericolosa passano tempi relativamente lunghi, almeno in termini umani. Si parla di secoli, o anche di millenni. Ma il violento sisma di magnitudo 7.8 che ha colpito il Nepal il 25 aprile 2015, che ha ucciso 9000 persone e raso al suolo interi villaggi, non ha scaricato tutta l’energia che si è accumulata in quell’area del pianeta nei secoli precedenti: la porzione occidentale della gigantesca faglia himalayana (la frattura che muovendosi ha dato origine al sisma) è ancora carica e, secondo questo nuovo studio, è pronta per il “big-one”. Questa è, in sintesi, la conclusione della ricerca pubblicata da Luca Dal Zilio, giovane ricercatore trevigiano che lavora presso il politecnico di Zurigo, in collaborazione con il California Institute of Technology (Caltech). «Il punto più pericoloso dell’area nepalese, quello che potrebbe essere colpito dal prossimo sisma, si trova a ovest della capitale, Kathmandu - spiega Dal Zilio, autore di questa nuova pubblicazione - In quell’area - ha aggiunto - dove in tempi remoti ci sono stati diversi sismi, sono ora quasi 500 anni che l’energia che si accumula lungo la fascia non si scarica». E ciò rende particolarmente spinosa la situazione perché, stando alle ricerche presentate da Dal Zilio e colleghi, se quell’energia si liberasse in una sola volta si potrebbe avere un sisma con magnitudo superiore a 8.5. La catena montuosa dell'Himalaya e l'altopiano del Tibet hanno avuto origine circa 50 milioni di anni fa dalla collisione di due grandi placche tettoniche: da decine di milioni di anni infatti la placca indiana s'infila sotto quella euroasiatica ad una velocità di circa 35–40 millimetri all’anno, muovendosi verso nord con una pendenza di circa 10 gradi. Poiché si tratta di un processo ancora in corso, tutta la regione è periodicamente teatro di intensi terremoti. A produrre i sismi è in particolare la faglia Himalayana principale (Main Himalayan Thrust), una zona di faglia bloccata che accumula stress elastico, scaricandolo occasionalmente con improvvisi scorrimenti che liberano un'enorme quantità di energia che si ripercuote fino alla superficie. 

Dal Zilio e colleghi hanno ricostruito l'evoluzione del sisma del 2015 utilizzando simulazioni numeriche, dati sismologici e dati satellitari: hanno così scoperto che terremoti di magnitudo 7 scaricano solo una parte dell’energia accumulata, l’altra parte dell’energia viene trasferita e accumulata nelle zone limitrofe della faglia. «Una sequenza di due o tre rotture parziali della faglia di magnitudo 7 creano le condizioni ideali per la propagazione di un terremoti di magnitudo superiore a 8.5, il quale si può potenzialmente propagare fino in superficie - spiega Dal Zilio, sottolineando che - Nelle grandi faglie lungo i margini di placca, come in Himalaya, ci sono zone dove lo stress si accumula più velocemente che in altre; questo è dovuto a un effetto geometrico della faglia stessa, e dalle proprietà delle rocce presenti lungo queste spaccature. Le zone ad alto stress, cariche di energia elastica, producono i terremoti, mentre le aree della faglia a basso stress formano delle vere e proprie barriere energetiche e fanno si che il terremoto si arresti. Tuttavia, dopo due o tre terremoti, queste barriere si ricaricano dell’energia residua dei terremoti precedenti e fanno si che il successivo terremoto possa propagare ed espandere anche oltre queste barriere per decine e decide di chilometri, generando così un sisma di magnitudo superiore a 8.5 - e chiarisce - La previsione dei terremoti, è noto, non è possibile. Non ancora. Quello che finora si è fatto è studiare la fisica che governa questi processi e la probabilità che un evento si manifesti studiando la sequenza di sismi registrata nel corso del tempo. Ma le registrazioni scientifiche riguardano un periodo molto breve della storia, sono utili per fare prevenzione in una regione soggetta a forti scosse, non a prevedere gli eventi. La chiave di volta sta nelle simulazioni numeriche: esse ci consentono di aprire ed estendere la nostra finestra spazio-temporale e simulare cicli di terremoti che durano secoli». 

QUESTO MODELLO SI PUÒ APPLICARE ALLA SISMICITÀ ITALIANA?

«Si, i nostri risultati possono essere contestualizzati anche alla realtà italiana, ma solo in parte. Per esempio, il meccanismo che noi proponiamo trova applicazioni alla sequenza sismica di L’Aquila 2009, Amatrice 2016 e Norcia 2017. Ogni terremoto di una certa energia può generare una sorta di effetto domino: la faglie che si sono messe in movimento nei vari sismi hanno risentito probabilmente dell’energia caricata dagli eventi precedenti. La zona colpita è, infatti, come tutto il sistema di faglie dell’Italia centrale, estremamente complessa. Subito dopo le due scosse più forti del 2016 sono state almeno una trentina le scosse di assestamento. Dopo un forte terremoto, la perturbazione indotta sulle altre faglie aumenta la probabilità che avvengano altri forti terremoti. Questo accade perché quando avviene un terremoto, questo carica di energia altre faglie in zone limitrofe e se una di queste era già prossima alla rottura diventa più facile che possa generare un altro terremoto forte, anche ravvicinato nel tempo, ma non sappiamo con certezza nè dove nè quando il nuovo terremoto possa avvenire. La differenza principale rispetto all’arco himalayano – dove c’è un’unica e gigantesca faglia – sta nel fatto che nell’Appennino le faglie sono frammentate. Questo fa si che la massima magnitudo possibile è limitata dalla grandezza di queste faglie» conclude il giovane e talentuoso ricercatore trevigiano.

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