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Giovedì, 18 Aprile 2024
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"Siamo tutti chiamati a partorire un’umanità nuova"

Omelia del Vescovo Gianfranco Agostino Gardin durante la celebrazione dell’Assunzione di Maria in cielo a Santa Maria Maggiore

TREVISO Fratelli e sorelle, nell’accogliere con gioia tutti voi che partecipate a questo appuntamento annuale presso la nostra “Madonna Granda”, desidero rivolgere un saluto particolarmente deferente e insieme cordiale al Signor Sindaco e ai membri della Giunta Comunale, che da poco si è insediata alla guida della nostra Città di Treviso; o forse, più correttamente, al servizio di questa nostra Comunità cittadina. Saluto anche il Presidente e i membri del Consiglio comunale qui presenti. E colgo l’occasione per formulare a tutti l’augurio di un servizio proficuo, sapiente e lungimirante.

Saluto anche i rappresentanti del Consiglio comunale. Il gesto che è stato compiuto all’inizio della celebrazione trova la sua origine in antiche vicende di questa Città (che sono state, secondo la consuetudine, rievocate introducendo questo rito). Il governo della Città dei primi anni del XIV secolo aveva riconosciuto il sostegno e la protezione di Maria nella lotta per conseguire in Treviso il rispetto di alcuni fondamentali diritti dei cittadini, in particolare il fondamentale diritto alla libertà, e il raggiungimento di una maggior giustizia e di una pace stabile. Da qui la decisione comunale di esprimere con un gesto (concretizzatosi poi nell’offerta del cero) la gratitudine della Città alla Madre di Dio venerata in questa basilica.

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Sappiamo che l’immediata attribuzione ad interventi dall’alto (o, come si dice, “dal Cielo”) del felice esito di alcune lotte per il dignitoso vivere delle persone e delle comunità, era nel XIV secolo assai più consueto, quasi naturale, rispetto al presente. E, d’altra parte, oggi siamo più lucidamente convinti che la fiducia nella protezione divina non significa ritenere che Dio si sostituisca alla nostra responsabilità, o ci esima da essa, nel costruire la pace, la libertà, la civiltà, il rispetto della persona, l’umanizzazione del vivere, la ricerca assidua del vero bene per ogni convivenza o comunità umana. Potremmo allora rileggere o reinterpretare il gesto che ogni anno la Città, attraverso i suoi rappresentanti, compie in questa basilica come una sollecitazione, e insieme un impegno, a continuare anche oggi a perseguire gli stessi obiettivi che a quel tempo suscitarono l’intraprendenza e la tenacia dei nostri padri, anche se tali obiettivi assumono oggi fisionomie e attuazioni diverse. Lo diciamo, questo, come cittadini, ma lo affermiamo chiaramente anche come cristiani. Papa Francesco - assieme, ovviamente, a tanti altri maestri di ogni tempo - ci ricorda che l’annuncio cristiano «possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri» (Evangelii gaudium 176). E afferma ancora: «Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna» (EG 182). E il Papa conclude che «una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra» (EG 183).

Non si tratta dunque di demandare a Dio la soluzione, più o meno magica, dei molti problemi che la vita e la società inevitabilmente ci pongono. Ponendoci da cristiani - se tali siamo o intendiamo essere davvero - davanti a Dio, ci sentiamo chiamati a lavorare insieme, con animo profondamente retto e con cuore appassionato, a costruire città, comunità, convivenze, in cui crescere insieme, in cui far sì che l’altro non sia percepito come il concorrente, o come colui che minaccia o disturba la ricerca del mio benessere, elevato a criterio supremo del mio vivere. Si tratta di porre condizioni che aiutino a percepirsi reciprocamente come compagni di viaggio, cercatori di un bene che risulti tale per tutti (si intende tutti gli onesti, o tutti coloro che il Vangelo definisce i “puri di cuore”); si tratta di divenire sempre più cultori appassionati del noi, non ossessionati dall’affermazione di un io che occupa ogni spazio. Certo, tutto questo è laborioso, non si improvvisa, domanda tenacia, fedeltà, coraggio. Penso alla scena descritta nel libro dell’Apocalisse (testo dalle complesse simbologie e allegorie) in cui si alzano le grida della donna in preda alle doglie e al travaglio del parto (Ap 12,2) - e pensiamo all’efficacia di questa immagine di quasi venti secoli fa, quando questo testo biblico veniva scritto, e quando non esistevano le possibilità attuali di attenuare il dolore del parto. Del resto, la vita di ognuno di noi, quella vita che tutti noi desideriamo serena e felice, ha la sua origine in un travaglio, il travaglio di un parto. Anche la resurrezione di Gesù, richiamata nella seconda lettura da Paolo (1Cor 15,20-27), è frutto – anche qui vi è qualcosa che richiama il parto – del travaglio della sua crudele passione e della sua morte violenta. Potremmo dire che noi siamo chiamati – tutti, e non solo chi ha responsabilità politiche o amministrative – a “partorire” un’umanità nuova. Almeno per quel poco o tanto che appartiene alle nostre possibilità, dovremmo contribuire a dare alla luce, a dar vita ad una società diversa: più equa; più capace di promuovere e rispettare diritti, e di educare al compimento di doveri; più solidale e meno indifferente verso quelli che papa Francesco chiama gli “scarti”; più generosa nel rinunciare al superfluo perché altri possano disporre del necessario. Ma bisogna, appunto, come una donna che accetta di farsi generatrice di una nuova vita, assumere la fatica del parto con il relativo travaglio. Questa fatica o sofferenza feconda prenderà via via la forma dell’attenzione all’altro, dell’accoglienza, della pazienza, della rinuncia, della donazione di sé, della prossimità, dell’immedesimazione con chi soffre, della forza di spendersi per gli altri. Ci colpisce nel brano evangelico (Lc 1,39-56) il fatto che l’evangelista faccia seguire immediatamente all’annunciazione della nascita di Gesù la visita di Maria a Elisabetta: il primo gesto di Colei che porta misteriosamente in grembo il Salvatore è un atto di carità, di aiuto, di assistenza. Venendo nel mondo, Dio non può che portare e suscitare atteggiamenti di amore, vicinanza, aiuto.

E siamo toccati, nel medesimo brano, dalle parole dell’inno - il Magnificat - che Maria innalza al Dio che predilige gli umili, si china sui poveri, si prende cura degli affamati. Gesù, con le sue parole, con la sua vita e con la sua morte – crocifisso, innocente, tra due delinquenti –, ci sorprenderà poi nel metterci di fronte ad un Dio, il Dio cristiano, che è, come qualcuno ama dire, un Dio “capovolto”: capovolto rispetto alle attese di molti, anche di molti che si considerano credenti e osservanti, ma che lo costruiscono secondo i loro teoremi e di fatto non lo accolgono come Gesù ce lo ha testimoniato. Il vero Dio cristiano non è un Dio ovvio; apre prospettive e orizzonti inattesi, che spesso frantumano una certa religiosità di benpensanti che lo vorrebbero solo come custode di una vita tranquilla, protetta e liberata dalle contraddizioni della storia; e anche dal disturbo di coloro che il Magnificat definisce semplicemente “gli affamati”, ovvero gli impoveriti, i piagati, gli sfruttati, i dis-graziati (cioè i resi privi di qualunque dono), che raccolgono, come il  Lazzaro della parabola, le briciole che cadono, se cadono, dalle mense di chi è concentrato sulla propria cupidigia.

Ma è giusto riconoscere che non mancano tra noi – e guai a non scorgerne la presenza - donne e uomini della solidarietà, della donazione di sé, della bontà senza condizioni, della uscita da sé. Sono dono alla comunità, alla Chiesa, alla società. Per essi cantiamo con commozione il nostro Magnificat. Maria Assunta, che contempliamo oggi nella pienezza della gloria, ci aiuti a camminare con fedeltà, fiducia e coraggio sulla strada tracciata da Gesù, il Maestro e Salvatore.

  † Gianfranco Agostino Gardin

vescovo di Treviso

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