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Giornata della Memoria, Farra di Soligo ricorda Gino Andreola

Il sindaco Mattia Perencin ha dedicato la giornata di oggi al suo concittadino scomparso nel 2016 dopo essere sopravvissuto ai campi di concentramento. Testimonianza da leggere

Mercoledì 27 gennaio il Comune di Farra di Soligo ha voluto celebrare la Giornata della Memoria in ricordo delle vittime dell’Olocausto, con i ricordi di guerra di Gino Andreola, nato a Farra il 17 agosto 1924 e mancato il 3 novembre 2016. 

Internato nei campi di concentramento nazisti, il 29 gennaio 2016 presso l'auditorium Santo Stefano aveva raccontato la sua storia e aveva testimoniato gli orrori di quel periodo che lui, giovane militare italiano aveva passato come prigioniero, su invito dell'attuale sindaco Mattia Perencin. «Il dramma dei campi di concentramento è stato vissuto anche dalla nostra popolazione locale - ha ricordato il primo cittadino - Le nuove generazioni devono poter ricordare la persecuzione degli ebrei e di tutti gli italiani che come il nostro Gino hanno subìto la deportazione, la prigionia e la morte. A tal proposito ho inviato nei giorni scorsi una lettera alla scuola perché di quanto successo ne parli ai nostri ragazzi».

 La testimonianza di Gino Andreola

«Nel 1935, con la guerra in Africa, il maestro sosteneva che era necessario partire. Quando scoppia la guerra nel 1940 sono chiamati alle armi tutti i giovani dai 18 ai 35 anni. Nel giugno del 1943 il maestro era capitano in Albanìa e mi invita per lettera a fargli da attendente, ma mio papà mi consiglia di non partire. Il 17 agosto 1943, giorno del mio diciannovesimo compleanno sono partito militare. Il 25 luglio cade Mussolini e l’8 settembre c’è l’armistizio. Il 9 settembre sono fatto prigioniero a Tortona alla Caserma Passalacqua e messo dai tedeschi su un treno dove in un vagone eravamo 40-45 persone, tutti militari. Ho visto come uno, chiamato indietro dalla mamma, è stato ucciso. Milano, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso. A Padova due hanno tentato di scappare, sono stati freddati. A Tarvisio son passato il 15 settembre e sono tornato il 27 settembre 1945. Mi hanno portato per due anni di prigionia in Germania, in campo di concentramento, dove dormivamo sotto i tendoni. Ricordo che, dopo otto giorni, quattro ufficiali ci radunarono tutti al centro del campo: uno di loro diceva di essere italiano, ci hanno fatto un discorso dicendo che Mussolini era stato liberato e chi voleva poteva entrare nella Repubblica di Salò per andare in guerra a fianco dei tedeschi per difendere la patria. Di circa 1.500 prigionieri solo cinque si sono fatti avanti, tutti gli altri han detto no. Ci hanno fatto lavorare nei pressi di Brandeburgo dai primi di ottobre fino al maggio del 1945, siamo stati liberati dai russi che ci hanno trattenuto cinque mesi con loro. I russi ci trattavano meglio dei tedeschi e ci hanno fatto vivere in un paese sgombrato dalle persone residenti. In agosto ho avuto una pleure e sono stato ricoverato in un ospedale da campo: erano con me uno da Follo e uno da Saccol di Santo Stefano di Valdobbiadene. In quell’ospedale due dottori giovani mi hanno levato l’acqua dai polmoni con una siringa e mi davano da bere la penicillina. Per noi è andata bene, ma tanti malati “sparivano”, li portavano via e a pochi chilometri c’erano i forni crematori, forse per loro quella era la fine, in quei forni. Pregavo tanto che la Madonna mi aiutasse. Nel 1934 era morta la mia mamma, ma da lei avevo imparato a dire le preghiere che dicevo anche con mia sorella Orsolina e in quei momenti mi veniva in mente di pregare: quando stavo male infatti c’era la neve. Ho pregato la mamma, unito spiritualmente al papà e alla mia famiglia, che mi dessero la forza per andare avanti pensavo che anche la mia famiglia pregava per me.

Si lavorava al caldo ad una fresa e la guardia tedesca sorvegliava giorno e notte. La “sboba” arrivava alle 5 ed era composta da 50 grammi di margarina ed un cucchiaio di zucchero. Io nello zaino avevo ancora il “vestito da borghese": l’ho venduto per tre chili di pane con addosso sempre la divisa militare. La fame fa fare “brutti scherzi”... ricordo che sono andato tra gli scarti della cucina tedesca tra la neve per mangiare qualcosa e sono stato sorpreso da una guardia tedesca che mi ha bastonato. Un altro che era in branda non lo tano da me, trovato dalla guardia tedesca, non l’ho più visto tornare. Quando sono tornato da Bolzano mi hanno ricoverato all’ospedale di Oderzo con visite di controllo a Venezia e a Padova. Il cappellano militare e un’infermiera a Oderzo mi hanno tranquillizzato dicendomi che tra quelli venuti dalla Germania ero uno dei “presi meglio” pesavo 39 kg, ma a Oderzo giorno dopo giorno, con iniezioni e cure, passai a 80 kg. In campo di concentramento lavoravo 12 ore al giorno, tutta la settimana, di giorno e una di notte. C'era chi lavorava in fabbrica,chi in miniera o galleria, ritornavo dal lavoro stanco e sfinito e mi sdraiavo sul pagliericcio in compagnia di cimici e pidocchi. Pensavo, ma nessuno dava conforto, che erano tutti nelle mie stesse condizioni e che se non continuavo a lavorare per me era finita. Con noi italiani c’erano pure russi e polacchi, penso che eravamo a 10 km circa dalla città, vicino ad una palude. C’era qualche guardia tedesca un po’ buona che ci portava fuori a lavorare e di dava qualche fetta di pane con marmellata. Ricordo con riconoscenza tre donne del posto: una in particolare che mi portò pane per due mesi, davvero un’opera buona ... e poi il cappellano militare ad Oderzo e la suora che chiamarono per me il dottore e le donne di Oderzo che ci portavano dei buoni biscotti. In tutte queste vicende c’era chi piangeva, chi bestemmiava, io sono stato forte: la preghiera imparata dalla mamma in stalla mi ha sostenuto mentre dispiace dire che nessuno ricordasse la mia triste esperienza fatta in lager, quasi fosse stata “una passeggiata”. Solo don Desiderio, il nostro parroco di Farra, ci incoraggiava nell'azione cattolica e ci offrì un pranzo in asilo vecchio dopo una messa celebrata per noi reduci ed ex internati e per onorare con la preghiera tutti i morti in guerra del secondo conflitto mondiale».

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