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In migliaia al Duomo di Treviso per l'ultimo saluto a don Raffaele Coden

Alle esequie, presiedute dal Vescovo Monsignor Michele Tomasi hanno concelebrato oltre 150 sacerdoti, e il vescovo emerito, Paolo Magnani, che nel 1997 aveva ordinato sacerdote il 52enne parroco di Mignagola e San Giacomo di Musestrelle

Si è svolto nel pomeriggio di oggi, 5 dicembre, il funerale di don Raffaele Coden, parroco di Mignagola e San Giacomo di Musestrelle scomparso qualche giorno fa a causa di una grave malattia. La celebrazione si è svolta in una cattedrale gremita di un migliaio di persone: famigliari, parrocchiani, amici, giovani scout, seminaristi, sacerdoti. Alle esequie, presiedute dal Vescovo, Monsignor Michele Tomasi hanno concelebrato oltre 150 sacerdoti, e il vescovo emerito, Paolo Magnani, che nel 1997 aveva ordinato sacerdote don Raffaele. Dopo il funerale, la salma di don Raffaele è stata trasferita a Mignagola per la sepoltura.

L'omelia del Vescovo

“Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà”. Anche sul percorso di don Raffaele, percorso di speranza, di voglia di vivere per continuare a servire le comunità a lui affidate e per continuare ad annunciare la Buona Novella, si è fatto buio. Non si è oscurato il sole, ma forse si è oscurata la forza in chi gli è stato vicino durante tutta la fatica dei suoi ultimi mesi. E forse il tempio di Dio, lo spazio della nostra fede, ha rischiato di venire nuovamente velato, e di richiudere quel passaggio tra cielo e terra aperto, squarciato dalla morte di Cristo in croce, dal suo amore, e dalla forza della sua risurrezione. Perché il dolore è grande, e la morte di don Raffaele ci lascia senza respiro, senza parole, un po’ smarriti, sicuramente più soli. È grande il dolore del suo papà e di sua sorella, dei nipoti. È grande il dolore dei suoi amici più vicini, preti e laici, che hanno condiviso con lui tratti anche lunghi, impegnati, a volte intensi, molto spesso lieti e felici della vita. Con un compagno di strada nel pieno della vita, compagno di cammino affidabile, e amico.

È grande il dolore delle sue comunità, di tutti coloro che lo hanno conosciuto ed apprezzato, per tratti brevi o lunghi di vita.

Non può essere diversamente, non deve essere diversamente.

Ma questo dolore non è l’ultima parola. Non può esserla e non lo sarà, se siamo disposti ad accogliere la testimonianza di don Raffaele e dei suoi cari. Una testimonianza che essa stessa lascia quasi senza respiro, tanto sembra estrema nella sua essenziale semplicità: potente, perché portatrice di forza di verità e di luce.

“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" ha gridato alla fine Gesù a gran voce.

“Signore, non capisco, ma mi fido di te” aveva scritto don Raffaele nel suo racconto pubblicato da “Vita del popolo”, e diceva, in questa forma ed in altre che esprimevano sempre fiducia, affidamento, confidenza quasi naturale con il Signore. Traspariva nelle sue parole, nei suoi gesti, nel suo modo di porsi questa fede salda e trasparente, ed era chiaro che non fosse una consolazione facile o la ricerca di una grazia a poco prezzo. Era vissuta realmente, concretamente, questa fede, quando le cure aprivano qualche spiraglio di miglioramento o quando le cose tornavano a non andare per il verso giusto, quando don Raffaele trovava la forza di proiettarsi nella vita delle comunità a lui affidate pur essendo lontano, e quando sopraggiungeva un poco di scoraggiamento per un nuovo ricovero.

“Non capisco, ma mi fido di te”. Che significava sempre anche: “nelle tue mani affido il mio spirito, la mia vita, le mie speranze, il mio presente e il mio desiderio di futuro”.

E non c’è mai stata affettazione in questo suo atteggiamento fondamentale, e don Raffaele non ha mai indossato la maschera del “bravo prete”. È stata fede autentica, provata nel fuoco della prova, nei dolori talvolta più intensi della forza dei medicinali, nella consapevolezza di una forza di vita in cui continuava a sperare, ma che sentiva sfuggirgli dal corpo sempre più provato e scavato.

È stata fede autentica, che ha sempre illuminato il suo sguardo, se possibile sempre più trasparente e luminoso con il passare del tempo. È stata anche la crescente consapevolezza che l’essere prete non si poteva esaurire in nessuna “prassi” per quanto rilevante ed efficace, ma che si doveva giocare in una relazione profonda con il Signore Gesù Cristo e, assieme a Lui, in relazioni più solide e vere tra noi, nel volersi bene nelle realtà dell’esistenza e delle sue condizioni quotidiane che sono superiori e più vere di ogni idea o teoria, per quanto sublime.

 Come aveva scritto don Raffaele nella sua lettera alle comunità di San Giacomo e di Mignagola del 30 settembre scorso:

“Non sto parlando di un amore melenso, da film di bassa lega, dove vissero tutti felici e contenti. Ma: di un amore concreto, che si fa vicino nel silenzio e nella discrezione, e che non si aspetta niente in cambio nemmeno di essere riconosciuto; di un amore che sa correggere e accettare le correzioni; che mette da parte l’orgoglio e supera il modo con cui ci vengono dette le cose per cogliere, che anche se la verità è spiacevole o ci può far male è sempre un dono di Dio che ci permette di crescere; di un amore tenace, che non vuole perdere la persona amata e che sa volere bene a chi gli è vicino non perché è perfetto, ma lo accetta per quello che è superando i difetti che ognuno di noi ha; di un amore che sa perdonare e lasciarsi perdonare; perché - diciamoci la verità - nessuno di noi è perfetto o ha la verità in tasca, ma siamo tutti fallibili e tante volte prevale il nostro interesse personale sulla verità e sul bene”.

Amore concreto, amore tenace. Quell’amore che ha fatto deporre con amore il corpo di Gesù nel sepolcro e che ha condotto le donne all’alba del nuovo giorno a prendersene cura con gli aromi preparati con cura ed amore. Quell’amore che ha mosso tanti e tante a prendersi cura con delicatezza, competenza e tenerezza della persona intera di don Raffaele e del suo corpo così fragile, e a cui lui ha sempre risposto con affetto, abbandono, gratitudine. E quell’amore che ha permesso di cogliere la verità di quell’annuncio inaudito e necessario:

“Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto”. Lo vorremmo ancora qui con noi, don Raffaele. Io lo vorrei qui, e, lo so, lo vorremmo tutti. Ma voglio anche imparare da lui - come mi sembra di poter imparare anche dal suo caro papà e dai suoi familiari - a dire “non capisco, ma mi fido di te”.

Non capisco, ma è certo che il sepolcro del Signore è vuoto, e che colui che è vivo non può essere preda della morte. E che i suoi amici sono chiamati a risorgere con Lui, ad essere nella vita, nella gloria. Nella luce dell’amore di Dio che illumina l’incontro di don Raffaele con il suo amico e Signore Gesù. E con la sua cara mamma. E anche con noi tutti, se lasceremo, anche nel pianto, aperta la porta del cuore al soffio della fiducia e della speranza.

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