Al Cason di Piavon una domenica con gli usi e costumi "de 'na volta"
Le tradizioni dei “nostri nonni” rivivono al Cason di Piavon. Appuntamento domenica 29 settembre alle 15: nell’occasione si esibirà il Gruppo Folkloristico Trevigiano, che metterà in scena gli usi e i costumi di una volta. Durante la manifestazione, organizzata dal Gruppo Amici del Cason (col patrocinio del Comune di Oderzo), sarà possibile visitare la caratteristica abitazione rurale della frazione.
Il cason è una capanna a due spioventi “quasi un rifugio costruito dall’uomo per difendersi dagli animali e per proteggersi dalle intemperie”, sottolineano le cronache dell’epoca. Cominciò a diffondersi su larga scala nel XV secolo, allorché i patrizi Veneziani acquistarono diversi appezzamenti agricoli nell’entroterra. Per garantirsi la manodopera, naturalmente a basso costo, erano soliti concedere ai braccianti un pezzetto di terreno dove poter costruire la loro dimora. Fatta, per l’appunto, di materiale povero reperito in loco: argilla per i mattoni, canne o erbe palustri per il tetto e legname per i serramenti e per la struttura portante. All’interno del cason tutto era di piccole dimensioni. Pure i balconi che, date le limitate dimensioni, contribuivano a mantenere l’ambiente fresco d’estate e quanto meno mite d’inverno. Secondo le (scarse) testimonianze, il cason di Piavon – situato in via Frassenè - ha almeno tre secoli. Nel 1934 vi andò ad abitare la famiglia di Giovanni Bertola, mentre dal 1937 al 1939 rimase chiuso. Nel 1940 vi prese dimora Angelo Pasqualinotto, detto “Tati”, assieme alla moglie Giustina Furlan e alla figlia Adriana; l’uomo lavorava come bracciante agricolo all’azienda agraria della baronessa Lilli Rechsteiner. Nel 1962 fu la volta di Giuseppe Pasqualinotto con la moglie Vittoria Lorenzon. Dopo la sua morte, nel 1966, la struttura serrò i battenti. Nel 1982 venne acquistata dal Comune di Oderzo, cha ne ha affidato la gestione al Gruppo Amici del Cason.
«Dentro tutti tossivano, tutti camminavano gobbi e tutti si asciugavano gli occhi, umidi, rossi e come rugginosi per via della coltre di fumo che ristagnava perenne ed impenetrabile ad una certa altezza – si legge in un testo di storia locale - Il fumo e la fame erano sempre presenti. Si mangiava veramente poco, ci si avvicinava con il piatto al fogher per una fetta di polenta. Quella stessa fame che rimaneva ad aspettare tutta la notte acquattata nei sogni, per azzannarti le viscere appena ti svegliavi. Allora tracimava, torbida, infiltrandosi negli interstizi più nascosti del corpo, negli anfratti più bui della mente, come un fiume in piena. Corrodeva ogni cosa, come una ruggine, per poi passare ai figli, e ai figli dei figli, come un debito mai pagato».
Per maggiori informazioni visitare il sito www.casonpiavon.it o inviare una mail a casonpiavon@gmail.com.