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Sabato, 20 Aprile 2024
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Betty, la regina trevigiana della Dakar. Una storia a "4 ruote" nelle praterie del Sud America

Il 2016 è per lei la 26° volta al seguito della carovana del rally raid più famoso al Mondo. Tutto però è iniziato nella sua Treviso, da bambina

TREVISO La Dakar. Bastano queste due semplici parole per risvegliare i cuori degli amanti dell'avventura e dei rally raid. Si tratta infatti della gara per eccellenza, dove si sfidano tutti insieme camion, moto, auto e quad tra le praterie, i deserti e le mulattiere di montagna del Sud America. Quest'anno il rally più difficile del Mondo fa tappa in Argentina e Bolivia, dopo i grandi fasti del passato in Africa. Per capire però la portata di questa gara basti pensare che sui social "La Dakar" conta 1,6 milioni di fans e 7,8 milioni di visitatori unici sul sito ufficiale, mentre 1400 sono i giornalisti al seguito della carovana per una conseguente copertura televisiva di 70 canali in 190 nazioni. 

E' il sogno che fin da bambino prende a chi ama il mondo dei rally, perchè è una gara "in solitaria" per centinaia e centinaia di chilometri tra asfalto, fango e sabbia, cercando di evitare il nemico fesh-fesh e provando ad arrivare sani e salvi alla fine di ogni speciale. E' una corsa per "duri" sia di fisico che di testa, dove ogni giorno bisogna fare i conti con sè stessi, con la meccanica e la natura che non perdona. Purtroppo c'è anche chi ci rimette la vita correndo, come il nostro Fabrizio Meoni nel 2005, ma i piloti lo sanno e ci devono convivere durante ogni chilometro, perchè il pericolo può essere in agguato dietro ogni curva o sotto un sottile strato di polvere. 

Anche Treviso ha però il suo angolo di Dakar, grazie a quella che da tutti viene chiamata "Betty", ossia la giornalista trevigiana Elisabetta Caracciolo, quest'anno alla sua 26° Dakar. Potremmo definirla come la "Regina italiana" alla Dakar, colei che è il vero motore dell'informazione tra il BelPaese e il Sud America grazie ai suoi report giornalieri sulla gara per OmniCorse.it e Worldrallyraid.com. Non solo reporter però, ma anche esperta di motori, tale da correre la Dakar in prima persona e quindi chi meglio di lei può spiegare cosa vuol dire vivere nel vero spirito dakariano questa magnifica competizione su due e quattro ruote.

Elisabetta...da Treviso alla Dakar. Com'è nata in te la passione per la corsa rallystica più famosa al Mondo?

Ho cominciato ad appassionarmi al fuoristrada, alle moto e alle vetture 4x4 molto presto, intorno ai 14 anni, e ovviamente in quegli anni la gara di riferimento era la Dakar. Poi nel 1989 ho cominciato i miei primi corsi da istruttore fuoristrada e poi sono approdata al ruolo di copilota nei rally raid. Così correvo in alcune gare internazionali e il Gazzettino, per cui lavoravo allora, mi chiese di scrivere qualcosa sulle gare che facevo. Da lì il passo è stato brevissimo. Nel 1991 alla mia prima Dakar il Corriere Motori mi chiese di coprire la gara per loro, e l'anno dopo passai alla Gazzetta rimanendoci fino a due anni fa.

Il 2016 è il tuo 26º anno nella corsa: come è cambiata nel tempo? Considerando anche il suo trasferimento obbligato dall'Africa al Sud America...

La gara è enormemente cambiata, ma ha conservato intatto il suo fascino. Non a caso "Dakar" è un marchio registrato perchè fa sognare l'immaginario collettivo. Il fatto è che molti piloti la prendono sotto gamba, non la rispettano e tornano a casa dopo due giorni parlando male di una gara che invece è "La Gara" per antonomasia ! E' cambiato tutto, nel bene e nel male. Ha perso forse un po' il fascino dell'avventura, nel senso che prima si dormiva buttati per terra, si mangiava quando capitava, sempre in mezzo alla sabbia, non ci si lavava mai, si faticava per ore in sella ad una moto o al volante di una macchina o di un camion, a volte senza dormire per giorni. Oggi però è la società globale che è cambiata. Si mangia tutti i giorni, a pranzo e cena, seduti su panche in legno, e con un vassoio pieno di ogni ben di Dio – però ci sono sempre quelli che si lamentano (fighette!). Si dorme in tenda, al coperto, ci sono docce e bagni ovunque...Diciamo che si è civilizzata: ora siamo tutti più puliti, ma magari meno felici. Dipende sempre dall'importanza che si dà alle cose. In Africa quando trovavamo un secchio con dell'acqua semi pulita con cui lavarci eravamo felici, e lo stesso se da un rubinetto rotto colava un filo d'acqua. Ora la gente si lamenta perchè l'acqua delle docce non è calda. Dovrebbero solo stare a casa certe persone, non glielo ordina il dottore di venire alla Dakar ! Un aneddoto: alla mia prima Dakar io avevo una macchina da scrivere, la Olivetti Lettera 32....archeologia pura!

Nel 2007 hai anche partecipato in prima persona alla gara, l'ultima purtroppo nel Continente Nero, a bordo di un camion Man M2000 nella categoria T4: cosa ti ha lasciato in eredità quell'esperienza?

Avevo già partecipato nel 2004, ma purtroppo senza arrivare in fondo. Invece nel 2007 la finimmo ed anche bene, calcolando che il nostro era un camion piccolino. Ne ho un ricordo bellissimo perchè lavorando per TuttoTrasporti e poi per Professione Camionista ho sempre avuto grande familiarità con i piloti dei camion alla Dakar, che in realtà sono i più bistrattati dai media. Per loro, i piloti intendo, vedermi correre con loro, nella loro categoria, fu una soddisfazione. Mi videro davvero come una di loro e mi hanno trattato come una mascotte: premurosi e sempre pronti ad aiutarmi se ero in difficoltà. Una bellissima esperienza: se la mia schiena me lo permettesse la ripeterei domani.

Parlando della vecchia "Parigi-Dakar", che impressione ti sei fatta della sua rivisitazione in "Africa Eco Race"? Alcuni piloti come Schlesser e Ullevalseter la proferiscono ancora oggi alla nuova "Dakar"...

L'Africa Race è una bella gara, ma ha degli enormi problemi “organizzativi”. A livello di percorso è eccezionale perchè lo disegna uno dei più grandi professionisti del settore, cioè Renè Metge, ma organizzativamente parlando le cose non sono proprio proprio perfette. Jean Louis Schlesser è l'organizzatore, nonché il proprietario della gara, e diciamo che andare d'accordo con lui non è semplicissimo e si è inimicato moltissime persone...Se il rally non decolla in parte dipende anche da lui.

Per quanto riguarda i colori italiani, dopo Meoni, Orioli e Biasion c'è stato un po' il vuoto ad alto livello forse. Oggi chi sono quindi le nostre punte di diamante nei rally raid?

Oggi abbiamo Alessandro Botturi, ex Campione del Mondo Enduro, su cui abbiamo riposto tantissime speranze, poi c'è il debuttante Jacopo Cerutti che essendo giovane potrà crescere in questa specialità. E poi c'è Paolo Ceci che è una roccia, tiene un profilo basso, ma è sempre al traguardo ed è affidabile e bravo visto che un team come la Honda Ufficiale lo ha chiamato come portatore d'acqua di Pedro Goncalves. Nelle auto purtroppo non abbiamo ambizioni e neanche speranze. E per il momento neanche nei camion...Si parla tanto di andare a fare la Dakar, ne parlano anche grossi piloti di rally, o personaggi famosi, ma correre qui non è semplice e trovare vetture di livello, che ti garantiscano una buona prestazione, è molto costoso.

Quest'anno il "Bottu" ha già avuto un piccolo incidente, nelle prime tappe, con la sua Yamaha Ufficiale: pensi possa ambire comunque ad almeno la Top10?

Dipende tutto dalla sua capacità di sopportare il dolore: ha i legamenti del polso strappati. Una persona normale non riuscirebbe neanche a tenere in mano un bicchiere d'acqua, lui sta correndo in moto la Dakar. E il polso è quello destro, quindi quello del 'gas'!

Per quanto riguarda invece il vicentino Picco, uomo ormai dagli innumerevoli record, pensi possa ottenere buoni risultati in questa sua nuova avventura nei quad con il suo Can-Am? 

Picco sta sorprendendo tutti in questi giorni con il quad e mercoledì era addirittura secondo della sua categoria Over 800, prima di qualche piccolo inconveniente. Ma fino a qui la gara è stata facile, vediamo nei prossimi giorni come se la cava. Certo lui è uno che non molla.

Quest'anno alla Dakar, nell'ASO, è arrivato un pluricampione come Marc Coma. È cambiato qualcosa nella gestione della corsa? E come vedi invece David Castera nel suo inedito ruolo di navigatore di Cyril Despres?

Per parlare di Marc bisgona aspettare ancora qualche giorno. La sua presenza è importante perchè mancava una figura di carisma alla Dakar fin dai tempi di Hubert Auriol. Sembra incredibile, ma i piloti hanno bisogno di una figura di cui fidarsi, un leader da seguire, e sicuramente Marc sta lavorando in questa direzione. E l'applauso che gli è stato tributato al briefing a Buenos Aires ha provato a tutti la stima che ogni persona nutre in lui. Per quanto riguarda David...si sta adeguando, ma non è facile, e di certo la sua vita è molto cambiata. Nei prossimi giorni voglio parlare con lui e allora potrò dire qualche cosa di più.

Una curiosità, che molti appassionati si chiedono, è come si vive ai bivacchi a fine gara, alla sera. Che ci puoi dire in merito?

E' una vita che a noi sembra normale, ma poi ci rendiamo conto che in effetti non è così. I piloti arrivano, si spogliano, si cambiano, si fanno una doccia e poi si montano la tenda. Ritirano il road book del giorno dopo e cominciano a lavorarci sopra con pennarelli ed evidenziatori, ed ognuno ha il suo stile. Poi si mangia, si segue il briefing e infine si va a dormire, in genere molto presto perchè alle 2.30, massimo alle 3, si è già in piedi per partire alle 4 con il buio per la tappa. Diventa un po' meno normale la vita quando magari arrivi al bivacco tardi e tutto quello che ho descritto lo devi fare in un'ora o anche meno.

In tutti questi anni hai conosciuto centinaia di piloti di ogni estrazione. Chi tra i più simpatici e disponibili e chi invece tra i meno?

Difficile domanda perchè i piloti cambiano negli anni...Sicuramente uno dei migliori è Luc Alphand, campione del mondo di discesa libera, ottimo pilota: é modesto, amichevole, sempre il primo a venirti a salutare e a chiacchierare. Fabrizio Meoni era unico, non avevi bisogno di fargli domande, ma solo di fermarlo da quante cose ti raccontava perchè non riuscivi a stargli dietro e a scrivere tutto quello che diceva. Ciro De Petri grande personaggio nel raccontarti le cose. Più schivo, ma gentile Richard Sainct, ancora più schivo però Gilles Lalay. Ma tutti fantastici a loro modo. Poi sai, negli anni i rapporti cambiano, e basta magari un episodio per creare amicizie con persone che il giorno prima facevano fatica a parlarti. 

Ti va di raccontarci ora qualche aneddoto particolare, curioso o che ti è rimasto a cuore dalla tua esperienza dakariana?

Ne ho milioni... ma ce n'è uno che amiamo raccontarci quando ci ritroviamo insieme, con le persone che erano con me quando l'abbiamo vissuto. Era forse il 1999 ed eravamo a Tidijka, in Mauritania. Soffiava una tempesta di sabbia allucinante e gli aerei facevano fatica a decollare. Così l'organizzazione francese – impeccabile in questo – scelse i francesi fra le persone che ancora dovevano partire e fece decollare l'ultimo volo possibile, abbandonando una settantina di persone, fra cui me, in un bivacco ormai demolito dal vento in balia della tempesta di sabbia. Eravamo italiani, spagnoli, cechi, russi, un po' di tutto. Ci lasciarono lì tutto un giorno e tutta la notte, venendoci a prendere il giorno dopo e noi ci dovemmo inventare un modo di sopravvivere. Quando il bivacco venne smantellato, il territorio su cui il giorno prima sorgeva una specie di cittadella tornò ad essere un deserto. Niente luce, niente acqua, nulla di nulla. Allora noi ci organizzammo andando a cercare legna, accendendo un fuoco, mangiando quello che ognuno di noi aveva per fortuna ancora nei propri zaini. La notte dormimmo per terra, sempre con la tempesta di sabbia in atto, riparandoci con dei pezzi di stoffa pesante che dei locali ci avevano portato. Avevamo costruito una specie di tenda per tutti, con alcuni paletti in legno. Alle 7 di mattina mentre ero nel dormiveglia mi sento picchiettare la spalla, apro un occhio e vedo due meccanici: Adriano italiano e Fernando, spagnolo. Avevano in mano una tazza in plastica, piena, e mi dissero: “Ti abbiamo portato la colazione”. Io aprii anche l'altro occhio e guardai il contenuto: ra almeno un quarto di litro di Chianti che Adriano aveva tenuto nascosto nel suo bagaglio fino a quel momento! Ce lo bevemmo insieme di buon'ora e mai Chianti ci sembrò più buono! 

Nel 2007 hai portato nella nostra Treviso, a Palazzo Bomben, una bellissima mostra come "Les tableaux du Dakar" per aiutare le popolazioni africane ad uscire dai loro problemi economici. Hai in progetto qualcosa di simile per il futuro?

Quella mostra fu un successo grazie al grande cuore dei trevigiani che acquistarono tutti i quadri e in questo modo riuscimmo a dare una casa, a Dakar, agli artisti di strada per due anni. Le cose ora sono diventate più complicate e anche lo stile delle persone che abbiamo aiutato è un po' particolare. Non è facile da spiegare, ma diciamo che il nostro era un incentivo a farli stare meglio per due anni dando modo poi a loro di continuare con il loro impegno nello stesso lavoro. E così non è stato, la mentalità è diversa. Mi piacerebbe fare qualcosa, ma oggi – anche se sono passati solo 6 anni – è tutto un pochino più difficile. Diciamo che se trovassi un appoggio a livello economico (quella volta feci tutto da sola, e con un piccolo aiuto da parte di I Care) potrei ripensarci. Ho anche mandato in Mauritania un container di materiale nel 2005 mi sembra, e anche quella fu una bella avventura, oltre che esperienza. 

Un atleta tra i più amati a livello mondiale nei rally raid è ancora oggi il nostro Fabrizio Meoni, deceduto in uno sfortunato incidente proprio durante una Dakar, nel 2005. Oggi in Africa esiste però un Progetto che porta il suo nome con l'obiettivo di aiutare i bambini poveri. È forse questo l'originale spirito dakariano? 

Domanda molto difficile...Non in tutti lo spirito dakariano si rivela nello stesso modo. Però le persone che aiutano questo Continente sono tante e non per forza appartengono al mondo della Dakar. Tanti piloti si prodigano in diversi progetti. Di certo anche Thierry Sabine a suo tempo aveva avviato alcuni progetti e lo stesso hanno fatto e stanno facendo anche gli attuali capi di ASO, in Sud America. Non dimentichiamo che del progetto di Fabrizio fa parte da anni anche Cyril Despres: lui fa tantissimo per queste persone.

Ora però non puoi sottratti ad una domanda d'obbligo: descrivici il tuo podio ideale per tutte e quattro le categorie in corsa quest'anno!

Nooooooooo! Vuoi scherzare? Se qualcuno lo legge poi mi lapidano in mezzo al bivacco! No, scherzo. E' difficilissimo dirlo e in genere non faccio pronostici, più facilmente potrei dirti chi non credo che arriverà a Rosario...

Allora concludiamo questa bellissima conversazione con una domanda forse scontata, ma mai banale per chi torna dalla Dakar, ossia: quale sarà la prima cosa che farai appena tornata a casa?

Darò acqua alle mie piante perchè so che avranno sentito tantissimo la mia mancanza! Poi un bel prosecchino e magari un piatto di spaghetti! Ce lo prendiamo insieme?

P.S. Da collega non posso esimermi da un'ultimissima curiosità: meglio la Dakar vissuta da reporter giornalistico o come membro effettivo di un team in corsa?

Sinceramente non saprei...Ho sempre fatto la Dakar in macchina, al seguito, a parte qualche edizione in aereo o in elicottero, all'epoca africana...E' tutto così diverso. Però in macchina anche la stampa la vive come i piloti: stessi orari, stesse fatiche, ma nessuna classifica a ricompensarti e quando arrivi al bivacco non vai a dormire, ma vai a lavorare. La Dakar è bella a  prescindere, anche come assistenza, meccanico, o team manager, devi solo riuscire a reggere il ritmo, e questa cosa ancora molte persone non l'hanno capita.

Qui sotto un video realizzato dalla direzione della Dakar sui migliori momenti dell'edizione del 2012:

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