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Martedì, 30 Aprile 2024
Cronaca Cessalto

Sfruttavano per il lavoro nei campi dei richiedenti asilo, condannati i caporali

Si tratta di due cittadini pakistani i cui nomi vennero fatti da Ali Usman, il connazionale 27enne ritenuto in prima battuta al vertice della "banda". Per entrambi la sentenza di primo grado (in abbreviato) è di due anni e due mesi di reclusione

Il 24 luglio del 2020 Alì Usman, 27enne pakistano arrestato nello scorso dicembre con l'accusa di aver costretto diciotto connazionali a essere impiegati nella potatura dei vigneti di decine di aziende vitivinicole della zona in condizioni di lavoro paragonabili allo schiavismo, venne condannato in abbreviato a due con la sospensione della pena. Ma nella udienza precedente Usman, che si era sempre dichiarato estraneo alla "tratta", di essere solo il più anziano tra gli sfruttati e per questo sarebbe stato deputato a spiegare agli altri quello che dovevano fare, fece il nome di chi reclutava in effetti gli immigrati. Si tratta di Fiaz Sadiq, pakistano di 33 anni e del connazionale 24enne Meer Hamza, che (difesi dall'avvocato Fabio Crea) sono stati condannati in abbreviato a due anni e due mesi. Secondo l'accusa i due avrebbero agganciato e impiegato in agricoltura i 18 braccianti agricoli, tutti richiedenti protezione internazionale. Di questi 12 lavorano completamente in nero.

L'inchiesta che aveva portato agli arresti era stata condotta dal Nucleo carabinieri ispettorato del lavoro di Treviso in collaborazione con i colleghi del Nil di Udine e aveva messo nel mirino un’impresa operante nel settore agricolo, con sede legale in via Brian a Cessalto, che reclutava cittadini pakistani da impiegare come manodopera per lavorare in vigneti di Santa Lucia di Piave, Motta e di altre località della provincia di Venezia e Pordenone. Gli accertamenti appurarono che titolare dell’azienda fornitrice di manodopera si occupava dell’impiego dei lavoratori nelle aziende agricole mentre il suo collaboratore reclutava e trasportava i lavoratori nei luoghi convenuti. I due “caporali”, approfittando dello stato di bisogno e della situazione di vulnerabilità dei lavoratori, garantivano una retribuzione di gran lunga inferiore a quella prevista dai contratti collettivi: 5 euro all’ora da cui decurtavano però 4 euro al giorno per le spese di trasporto, 50 euro al mese per il pranzo e 100 euro al mese per il posto letto. 

Il risultato era un salario da fame per vivere in condizioni disumane e lavorare nei vigneti senza indossare nessun dispositivo di protezione. I lavoratori sfruttati, alloggiati in tuguri senza riscaldamento con presenza di muffe, finestre e infissi danneggiati e con la disponibilità di servizi igienici del tutto inadeguati, venivano svegliati all’alba e accompagnati nelle aziende agricole dove prestavano la propria opera fino a tarda sera. Era così che la ditta si proproneva sul mercato agricolo ad un prezzo particolarmente competitivo per i committenti.  

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