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Cronaca Mogliano Veneto

Bimbo sottratto al padre, arriva la condanna della Corte dei Diritti dell'Uomo

Venerdì scorso i giudici di Strasburgo hanno depositato le motivazioni della sentenza con cui "censurano" lo Stato italiano per le inadeguatezze giuridiche mostrate nel caso

Il prossimo febbraio compirà 8 anni ma con il suo papà, da quando ha 15 mesi, è potuto stare non più di un centinaio di ore, di cui 4 negli ultimi 3 anni e solo con incontri a cui erano presenti anche gli assistenti sociali. L'uomo, un 43enne di Mogliano, separato dalla madre del piccolo con cui non era sposato, non ci sta e dice di voler solo «stare con mio figlio ed essere un padre per lui. Ma la giustizia italiana continua, di fatto, a negare i miei diritti fondamentali di genitore». 

Oggi del bambino, trasferitosi con la madre a Roma, non si conosce neppure la residenza. Eppure il papà ha dalla sua tutta una serie di pronunce giudiziarie: una sentenza del Tribunale di Treviso, appellata ma sostanzialmente confermata che condanna la mamma per sottrazione di minore, svariate pronunce del Tribunale dei Minori di Venezia che raccomandano l'affido condiviso del piccolo e un decreto dello scorso febbraio del Tribunale di Minori di Roma che in ragione del comportamento della madre dispone che Matteo (il nome è di fantasia) venga affidato ad un casa famiglia della capitale.

Ora in soccorso dell'uomo arriva anche una pronuncia della Corte dei Diritti dell'Uomo. Venerdì scorso i giudici di Strasburgo hanno depositato le motivazioni della sentenza con cui condannano lo Stato italiano per le inadeguatezze giuridiche mostrate nel caso. «Erano necessarie - scrivono i giudici - maggiore diligenza e rapidità nell'adottare una decisione che riguardasse i diritti garantiti del bambino. La posta in gioco per il ricorrente richiedeva misure urgenti, in quanto il passare del tempo avrebbe potuto avere conseguenze irreparabili sul rapporto tra il figlio e il padre, che non viveva con lui».

La storia risale al luglio del 2015. Padre e madre di Matteo sono al tempo entrambi residenti a Mogliano Veneto e nel corso dell'estate decidono che la convivenza è finita. «La causa scatenante - dice il papà - fu un litigio. Lei prese e se ne andò, prima a casa dei genitori, che si erano trasferiti da Roma per stare vicino alla figlia; poi però, con il bambino che era molto piccolo, si spostano tutti nella capitale». Tra padre e figlio, a quel punto, i rapporti si fanno molto rarefatti.

«Le autorità italiane - scrive la Corte di Strasburgo - non hanno trovato una soluzione per consentire al padre di esercitare regolarmente il suo diritto di visita. Le prescrizioni del Tribunale di Venezia non hanno avuto effetto sulla mamma, che ha continuato a impedire al padre di esercitare i suoi diritti di visita e si è persino allontanata di seicento chilometri senza il consenso del ricorrente e quello dei tribunali». «Le autorità di giustizia nazionali - continua la Corte dei Diritti dell'Uomo - non hanno adottato misure concrete e utili in grado di consentire l'instaurazione di un contatto effettivo tra padre e figlio. Questo Tribunale rileva che hanno poi tollerato per circa sette anni che la madre, con il suo comportamento, abbia impedito l'instaurazione di un vero rapporto tra il ricorrente e il bambino e lo svolgimento del procedimento dinanzi al giudice nazionale appare come una serie di misure automatiche e stereotipate, quali le successive richieste di informazioni o una delega di seguire la famiglia dei servizi sociali, insieme all'obbligo per questi di organizzare e garantire il rispetto dei diritti di visita del ricorrente». Assistenti sociali che, puntano il dito da Strasburgo, «hanno agito in ritardo e non hanno eseguito correttamente le decisioni dei tribunali».

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