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Perseguitata dall'ex fidanzato. L'accusa: «L'effetto Giulia è già svanito»

La lettera di una trevigiana che già per quattro volte ha denunciato i soprusi dell'uomo che diceva di amarla. Lui ha addirittura tentato di sfregiare il suo volto con l'acido e l'ha più volte malmenata. L'amarezza e l'impotenza: «Il sistema di protezione delle vittime continua a latitare»

La mia storia, questa storia, inizia lo scorso anno. Incontro una persona che sembra essere perbene, premurosa, lavoratore. Inizia una relazione. Dopo un mese, dal nulla, comincia a scricchiolare qualcosa e iniziano i primi abusi: bugie, insulti, accuse ingiuste, pentimenti, grandi ritorni. Da maggio ad agosto una serie infinita di soprusi: mani al collo, minacce di morte, di dar fuoco alla mia casa, di deturparmi con l’acido, di tornare a casa mia con altre persone, tirate di capelli, calci, schiaffi, coltelli puntati alla gola, minacce a persone a me vicine. Sono sempre più provata, non riesco a reagire. Ne risento io. Ne risentono i miei cari.

Ad agosto me ne vado per le vacanze. Una settimana distante dall’inferno che stavo vivendo. Una settimana per respirare e riflettere. Per trovare serenità e capire come allontanarmi da questo incubo. Torno a casa e, dopo una settimana di ulteriori bugie, decido di dire basta. Una sera butto fuori da casa mia questa persona. Per riuscirci devo far intervenire i Carabinieri. Se ne scappa prima che arrivino. Minaccia di tornare nella notte con altre persone. E ritorna. Da solo. Urla, mi insulta. Perché non gli apro la porta. Chiamo la Polizia. Scappa di nuovo prima che arrivino le Forze dell’Ordine. 

Il giorno successivo decido di andare dalle Forze dell’Ordine. Per denunciare. Vengo scoraggiata a farlo. Mi impunto. Voglio denunciare. Sono disposta anche ad alzarmi e ad andare in altro corpo di Polizia. “Tanto poi tornate tra una settimana a ritirare la denuncia”. Non io, rispondo. Deposito la mia prima denuncia. Codice Rosso. In dono ricevo anche una “lezione di vita” sulle persone da frequentare.

In una settimana ci torno altre due volte in quel comando. Per denunciare la violazione di domicilio e per le prime testimonianze. Rifiuto di denunciare con la persona che ha raccolto la mia prima denuncia. La testimonianza, dopo un’ora di deposizione per la prima denuncia, dura un’altra ora abbondante. Quando esco in guardiola mi trovo davanti quattro miei vicini di casa chiamati a loro volta a testimoniare. Sono la vittima; eppure, mi vergogno come una ladra. Nemmeno la possibilità di uscire da un’altra parte; io non sapevo che ci fossero li i testimoni ma le Forze dell’Ordine sì. Mi tocca l’ingrato compito di spiegare ai vicini perché sono lì; sono li perché ho denunciato il mio compagno violento. Bello no? Dovrò spiegarlo, nei giorni successivi, anche ai testimoni che ho indicato, in un continuo remake delle violenze subite.

Nelle settimane successive si susseguono gli avvistamenti nelle vicinanze di casa mia di questa persona. Lo vedo io, lo vedono i vicini. Annoto orari, vie. Cambio le serrature di casa, mi barrico dentro, mi guardo le spalle quando esco, quando entro, quando sto nel mio quartiere e in centro città. Non posso più andare al parco vicino a casa. Non posso più andare a passeggiare nelle vie vicino a casa.

Mando tutto alle forze dell’ordine. Sette o otto segnalazioni di avvistamento. E ci torno per la terza denuncia. Da li in poi vengo chiamata ancora e ancora. Perché il PM e il GIP chiedono chiarimenti sugli avvistamenti, vogliono sapere come evolve la situazione. Non bastano le segnalazioni. Che poi quando ti chiamano per dare spiegazioni ci devi andare quando dicono loro, e poco importa se hai altri impegni o se lavori o se sei esausta o se stai male. Ci devi andare; perché non sono ancora convinti di emettere un’ordinanza restrittiva, un divieto di avvicinamento. In fin dei conti si è solo avvicinato ma senza fare nulla, no? Non importa se io ho paura e devo vivere come una reclusa.

Arriva novembre. Invio ulteriori segnalazioni. Vengo chiamata ancora. Un’altra volta. Il GIP vuole ulteriori aggiornamenti. Nel frattempo, ho incaricato un avvocato. L’ordinanza restrittiva arriva il 10 novembre. Hanno 10 giorni di tempo per interrogare l’indagato. Finora non è mai stato chiamato. Lui. Io invece ho perso il conto delle volte che ho dovuto dare spiegazioni. Il sistema prevede che si valuti l’attendibilità della vittima prima di procedere. Attenzione: l’attendibilità della vittima. Perché oltre ad averle prese devi dimostrare pure che stai dicendo la verità.
Mi stanno vicino mia madre, una mia cara amica e il Centro Antiviolenza al quale mi sono rivolta.

L’11 novembre scompare Giulia Cecchettin. Una settimana di ricerche per poi scoprire che è stata brutalmente ammazzata dall’uomo che diceva di amarla. E tutto accelera. L’interrogatorio si tiene, quello del mio aguzzino, qualche giorno prima di quello di Turetta. L’ordinanza restrittiva viene confermata. Allora c’è un rischio che possa avvicinarsi a me. Però dalla prima denuncia all’emissione dell’ordinanza sono passati due mesi. Non era pericoloso anche prima? Ah no, prima dovevano accertarsi che io fossi attendibile.

Addirittura, a metà dicembre vengono chiuse le indagini. Un record. L’assassinio di Giulia non ha smosso solo le coscienze ma anche la burocrazia a quanto pare. Entro in possesso finalmente del fascicolo e posso vedere chi è stato chiamato e cosa è stato detto. L’avvocato è ottimista. Forse a gennaio ci sarà la notifica dell’udienza preliminare. Ma passano le settimane, i mesi. E dell’udienza preliminare non c’è nemmeno l’ombra. Intanto l’imputato gira indisturbato per la città. A piede libero.

L’effetto Giulia finisce. E tutto torna come prima. E continuano a morire donne per mano degli ex partner. E continuo a barricarmi in casa, a chiudere a doppia mandata la porta anche quando sono dentro, a guardarmi le spalle quando esco. Tutto tace.

Fino a domenica scorsa. L’imputato viola il divieto di avvicinamento di 500 metri. È a 30-50 metri da casa mia. Io non ci sono ma viene notato da un vicino, che chiama la polizia. Manderanno una volante dicono. La sera prima di rientrare e dopo esser stata avvisata dal vicino chiamo anche io le Forze dell’Ordine. Ho paura a tornare a casa. Arrivano e mi scortano. Per fortuna non c’è nessuno nelle vicinanze.

Dopo mesi, dunque, non sono ancora al sicuro. E l’ordinanza viene violata come acqua fresca. Come posso sentirmi al sicuro? Avviso l’avvocato. La mattina successiva chiamo le Forze dell’Ordine. Lascio detto di richiamarmi con urgenza spiegando il motivo. Dopo due ore, ancora non mi richiamano. Richiamo io: “Signora a breve la richiamiamo”. Passano altri 40 minuti senza che il telefono squilli. Allora prendo la macchina, chiamo i miei clienti per avvisare che non arriverò. Devo spiegare nuovamente perché. Vado al comando senza appuntamento e chiedo del preposto alla denuncia. Ormai ci conosciamo bene. Mi riceve dopo poco. Spiego la situazione, che il divieto di avvicinamento è stato violato. Parte la quarta denuncia. Un procedimento ex novo in quanto le indagini del primo sono già state chiuse. Chiedo cosa succederà ma purtroppo nemmeno il preposto è in grado di dirmelo. La denuncia deve arrivare in Tribunale e poi, chissà quando, PM e GIP dovranno vagliarla; chiameranno i testimoni oculari per capire se sono attendibili.

La stanchezza sale. Devo comunque continuare con la mia vita e il mio lavoro. Ma mi sento violata. Dov’è lo Stato che mi protegge? Per quanto tempo dovrò continuare a barricarmi in casa e guardarmi le spalle? E soprattutto cosa devo aspettarmi? Cosa devo aspettare per sentirmi al sicuro? Per avere la data dell’udienza preliminare? Per sapere se si andrà a processo o se l’imputato sceglierà tra patteggiamento o rito abbreviato con un lauto sconto di pena di un terzo? Per sapere se potrò costituirmi parte civile? Per sapere che la mia vita sarà salva? L’effetto Giulia è già svanito. E chi come me aspetta giustizia si ritrova ad avere il fianco scoperto. Io voglio vivere, voglio vivere serena. Io non voglio essere l’esima.

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