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Cronaca Santa Bona / Via Angelo Ronchese

Assolto presunto boss della mafia nigeriana, per i giudici era solo un "mediatore"

il 34enne Oseiwe Ewobe era ritenuto parte  del sodalizio mafioso EIYE (o Supreme Eiye Confraternity), ben radicato in Italia e in Europa. Ma la sentenza del Tribunale di Treviso demolisce di fatto l'impianto accusatorio

Assolto perché il fatto non costituisce reato e il fatto non sussiste. Questa la sentenza  che manda fuori dal carcere il 34enne Oseiwe Ewobe, ritenuto parte  del sodalizio mafioso EIYE (o Supreme Eiye Confraternity), ben radicato in Italia e in Europa e non solo.

Tutto era partito dalla denuncia di una ragazza nigeriana vittima di tratta e di sfruttamento della prostituzione. E così si era arrivati ad una maxi operazione della polizia partita da Palermo. L'indagine, denominata "No Fly Zone", ha smantellato un sodalizio criminale di stampo mafioso, chiamato "Eiye", che era ramificato su tutto il territorio nazionale.

Secondo gli investigatori si tratta di un'organizzazione criminale specializzata in furti e reati contro la persona, che si contrappone all'altro tristemente noto gruppo malavitoso nigeriano che è chiamato Black Axe. Oseiwe Ewobe, con precedenti per rissa e resistenza a pubblico ufficiale, era soprannominato "Hope" o "Hope in God"; per gli investigatori si sarebbe trattato di un membro di rilievo dell'organizzazione nel Nord Italia, che partecipava alle riunioni organizzative ed esercitava un ruolo chiave nella gestione dei conflitti e negli equilibri interni. Aveva raggiunto, stando a quanto accertato dagli inquirenti, al ruolo di "Eagle", ovvero "capo dei picchiatori".

Ma la sentenza del Tribunale di Treviso demolisce di fatto l'impianto accusatorio: non c'è nessuna affiliazione con il "nest" di Palermo e con quello di Treviso. Confermando quanto Ewobe aveva detto al gip di Treviso Zulian durante l'interrogatorio di garanzia avvenuto il 7 aprile del 2019. 
«Io non sono un affiliato della “Supreme Eiye confraternity” - furono le sue parole - le telefonate che il dottor Prince (un nigeriano di Quinto, finito in manette a dicembre di anno fa nell’ambito di un’inchiesta della Dda di Torino) mi faceva erano solo richieste cortesi di riappacificare le varie anime della comunità nigeriana di Treviso quando erano ai ferri corti tra loro. Quei favori me li chiedeva non come affiliato, accusa che respingo con fermezza, ma come punto di riferimento per la comunità nigeriana a Treviso». Il nigeriano era residente in città  con la compagna, in via Pisa, e titolare di un negozio di prodotti etnici in via Ronchese. «Per questo - disse - sono molto conosciuto». Insomma, sarebbe stato un sorta di mediatore e non un boss.  

Il pubblico ministero Patrizia Ciccarese, della Dda di Venezia, aveva chiesto una condanna molto dura a 10 anni di carcere.



 

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