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Cronaca Vittorio Veneto

Fallimenti pilotati e riciclaggio, in arresto banda di bancarottieri seriali

Quindici persone arrestate, sequestro da 32 milioni. Il gruppo, attivo in varie zone d'Italia, si era specializzato nell'acquisizione di società in crisi ma ancora dotate di importanti patrimoni, che gli indagati avrebbero prosciugato prima di farle fallire

La guardia di finanza ha smantellato un presunto gruppo criminale composto da almeno 32 persone, accusate di gravi episodi di bancarotta e riciclaggio. Il gruppo, con fulcro a Bologna da dove è partita l'indagine, avrebbe avuto varie ramificazioni in diverse regioni italiane, con alcune figure chiave anche nella provincia di Venezia e Treviso con un indagato residente a Vittorio Veneto sottoposto a obbligo di dimora. In seguito all'operazione, coordinata dalla direzione antimafia, il gip Andrea Salvatore Romito ha firmato un decreto che ha portato alla denuncia di tutte le persone coinvolte e all'arresto di 15 di loro, oltre che al sequestro di beni per 32 milioni di euro. Le indagini sono partite un anno fa dal Nucleo di polizia economico-finanziaria del capoluogo emiliano. Gli investigatori parlano di una "banda del buco", specializzata nella «continua acquisizione di società in crisi, ma dotate di apprezzabili asset, da depredare e condurre al fallimento».

La principale manovra di questo tipo si sarebbe concentrata sulla catena di supermercati ad insegna "La Meridiana", che all'epoca, nel 2020, gestiva una decina di punti vendita tra Emilia-Romagna e regioni limitrofe: le indagini hanno appurato che l’organizzazione, tramite la società "Armonie", avrebbe rilevato il gruppo La Meridiana, già in fase di procedura fallimentare, riuscendo poi a stipulare contratti pure con altri marchi della Gdo e della dermo-cosmesi. In totale, anche grazie all'ottenimento di finanziamenti bancari, avrebbero preso in gestione una trentina di punti vendita. Come scoperto dai finanzieri, una volta alla guida dei supermercati gli indagati avrebbero effettuato «vere e proprie operazioni di sciacallaggio» ai danni della società, «cagionandone dolosamente il dissesto». In sostanza, molti dei punti vendita sarebbero stati spogliati delle proprie disponibilità finanziarie e anche di merci e attrezzature, che venivano trasferite ad altre società riconducibili alla stessa organizzazione criminale. Non solo: gli indagati avrebbero lucrato sulla gestione del personale impiegato nei supermercati, assumendo i lavoratori attraverso società (sempre "di comodo") che poi avrebbero compensato i relativi contributi previdenziali e assistenziali, nonché le ritenute sul lavoro dipendente, con crediti d’imposta fittizi per oltre 2 milioni di euro. Il tutto a danno degli stessi lavoratori, che in breve tempo sono rimasti prima senza stipendio e poi a casa, senza Tfr né contributi versati. Alcuni degli indagati, nell'area veneziana, avrebbero avuto l'incarico di "rottamare" le società. Uno di loro, di Portogruaro, è in carcere; un altro, di Eraclea, sottoposto a ordine di dimora.

I guadagni illecitamente accumulati sarebbero stati reinvestiti in nuove iniziative imprenditoriali (tra cui l’acquisto di un prosciuttificio nella provincia di Parma) oppure trasferiti, per essere ripuliti, a società compiacenti come pagamento di fatture per operazioni inesistenti: tra queste spiccano tre cartiere amministrate da persone di nazionalità cinese che, in meno di un anno, hanno emesso fatture false nei confronti di centinaia di imprese italiane realmente esistenti per 7 milioni di euro, e ricevuto bonifici sui propri conti per 11 milioni. Si tratta di canali estranei ai tradizionali circuiti finanziari, pensati per aggirare le norme anti riciclaggio, detti "underground bank": i bonifici finiscono in Cina, mentre i referenti cinesi in Italia corrispondono agli imprenditori italiani la somma in contanti. Elemento di unione tra italiani e cinesi sarebbe una coppia di coniugi (l’una cinese, l’altro italiano) residenti in provincia di Arezzo, implicati anche in un giro di prostituzione di giovani connazionali della donna. Secondo i finanzieri, il gruppo avrebbe rivolto la propria attenzione su un nuovo target, ossia una storica società ittica di Taranto dotata di un consistente patrimonio, ma indebitata e in crisi di liquidità. Anche in questo caso, l'obiettivo era di saccheggiarla.

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